la prima era solo un sogno suono lontano suono di naso e metallo fragore di treno sugli scali telegrafo che scarica sillabe incomprensibili il frusciare di una manopola che insegue una frequenza cinema muto al contrario dove c'è solo la voce voce di un al di là senza forma che quella voce lascerai cantare senza che tu sappia cosa siano queste emozioni né che faccia abbiano nomi che le strappano dal cuore come spine dai piedi e bruciano la pelle in una chimica sconosciuta che attraversa la schiena e fa stringere i pugni lui ti guarda ma non spiega porta l'indice alle labbra e ti chiede di aspettare e finalmente salta ti passa una mano tra i capelli e ridete insieme lui contento per qualcosa che non sai tu a deglutire l'amaro che ti lascia capire che nello stesso sogno è dura stare insieme la seconda era erba e gesso nebbia di gambe e vapori di fiato tra braghe lunghe e scarpe pesanti a insegiore lingue di cuoio cucite a sfera dietro un vetro così convesso che era come guardare il mondo da uno spioncino un mondo dal quale separava un oceano ma che quel cubo rendeva così vicino che bastava allungare un dito per poterlo toccare erba e gesso in un paese che si è appena svegliato ma non ha ancora realizzato se quello che ha passato è davvero passato nero come il lutto di Roma città aperta bianco come il punto interrogativo che una mano incerta traccia sul foglio senza righe di un futuro che si sa solo cosa non dovrà mai più essere nello schermo nani e giganti giganti e nani a corrersi incontro abbracciarsi e liberare le mani sotto milioni di facce che ondeggiano come spighe di grano accarezzate dal soffio di un'unica emozione anime mai viste che siedono accanto e si tengono per mano la prima vertigine confonde toglie il fiato ha il nome di un satellite che con il suo ago cuce distanze siderali e ci fa stare una notte intera sull'orlo di un precipizio silenzio di un urlo a trattenere il fiato e sperare che dopo essere caduti tre volte nella polvere si torni ancora una volta sull'altare poi trovarsi a cantare con la voce di un miliardo di persone e finalmente una estate l'erba diventa verde e il gesso bianco e le maglie a colori sembra di essere tornati a lascia o raddoppia la gente fa ressa ai tavolini dei bar a seguire la prima volta dei cinque cerchi senza gli americani con la memoria ancora illuminata dalla scia della cometa di Bayes ma i pensieri già in fuga solitaria per capire se la Spagna sarebbe stata Messico o Corea la terza è la più forte porta il nome di Pablito e avrà per sempre la faccia di Marco al Bernabeu una corsa pazza e un grido che hanno fatto il giro del mondo nei telegiornali sulle copertine di tabloid e quotidiani e ancora vibrano dentro nei mille come eravamo ai quali ancora oggi ci teniamo aggrappati e ancora una volta giornali a mezzanotte e partite nelle fontane e tutte le auto che diventano decappottabili migliaia amici sconosciuti dietro un pallone sparato in cielo per tornare a casa e buttare la testa sotto l'acqua ghiacciata della vita un po' perché il risveglio non uccida ma soprattutto perché la prossima possa essere ancora una prima volta e ci siano facce e nomi da strappare dal cuore come spine dai piedi l'ultima è Roberto che spara troppo alto alla lotteria dei rigori sembra ieri ma ne è passato del tempo e il conto ormai segna cento a pensarlo così in ginocchio sul dischetto sotto lo sguardo da marmo greco dei compagni sequestrati a centro campo capisci che la vita scorre in gran parte prima del calcio di rigore e che la distanza che ti separa dalle cose è quella c'è sempre uno che fischia e un altro ti fissa con occhi di lama la cosa più difficile è capire che il senso non sta nel buttarla dentro o fuori ma nel prendere la rincorsa e tirare fammi tornare sull'asfalto amaro sotto un sole che non da ombre cartelle e cappotti a far da palo e polvere e vento e sale fino a quando fa scuro e non ci si vede più e l'aria brucia in gola e fa tossire ho ancora voglia di sentire una voce che chiama e di capire che è ora di rientrare (Grazie a Marco per le correzioni)